di Renzo Valente
Mi ha preso una dolce emozione il giorno in cui, ed è accaduto poche settimane or sono, la rividi in Mercatovecchio. Teresa! Quanto tempo!
Mi tornano gli anni di un giardino in via Marinoni, qui a Udine, che fu per me, per noi, quella specie di sosta che nella vita, fra fanciullezza e giovinezza, capita a tutti di fare nel punto in cui non si è più fanciulli, ma neanche uomini ancora lo si è.
Ed era un bel giardino, con le canne di bambù e una ragazza di cui ci eravamo innamorati. Teresa era bellissima. Aveva i capelli di una tinta fra il biondo e il castano, sottili come una bava di seta e, come questa, increspati e lucenti, gli occhi scuri, nasetto corto, una figuretta svelta e sottile che adoperava con disinvoltura.
Ma forse non tanto questo era stato che ci aveva fatalmente incantati, quanto il suo modo di fare, di muoversi, di parlare, pronta, sicura, contenta: una irradiazione, insomma, di simpatia. Più tardi, avanti nella vita, quando ormai il giardino e lei non furono che rimpianto e un caro struggimento per averli avuti e perduti, mi accadrà più volte (ghiribizzi della fantasia) di paragonarmela, scherzosamente, a un sorridente cucchiaino di citrato in mezzo bicchiere d’acqua: l’acqua rimane ancora poca e la spuma, invece, viene su e straripa, bella, bianca, fresca, pulita, sbrigativa, cigolando e frizzando. Una volta, quando l’età me lo permetteva e la «palanca» della nonna anche, non appena mi accorgevo che le bollicine andavano calmandosi e il loro rumore affievolendosi, prima che sparisse del tutto mi mettevo svelto l’orecchio nel bicchiere per non perdermi neanche uno «ziiiii».
Che meraviglia, dunque, se anni e anni dopo mi accadrà di accostare quel mio gioco al riso magico della Teresa, siccome entrambi mi erano tanto piaciuti e l’uno all’altro assomigliava e tutti e due avevo temuto, sperando che non avvenisse mai, che un giorno, come invece, ahimè!, accadde, dovessero inevitabilmente finire? Erano gli anni di mezzo fra l’una e l’altra guerra e se della prima, che non avevamo potuto vedere, ci facevano ancora sentire, in piazza Vittorio, i brividi superstiti nei discorsi celebrativi e i successivi mormorii del Piave, alla seconda, la quale un giorno avremmo dovuto non soltanto vedere ma addirittura fare, ci stavano preparando immergendoci fino al collo nel «clima» delle aquile imperiali.
Tuttavia noi continuavamo a rimanere i miti ragazzi che eravamo sempre stati, un po’ all’antica e un po’ anche moderni, ma con evidenti tendenze romantiche. Era natura, era l’ambiente in cui ci avevano tirati su? Oppure soltanto una posa, una specie di eroismo da barricate, ispirato alla crisi in cui allora si trovava il buon tempo romantico, lì lì per capitolare, siccome il «Sabato del villaggio» aveva già abdicato a favore della pastasciutta di Marinetti? Non so. Non me lo sono mai chiesto, nè credo di non aver mai sentito il bisogno di saperlo.
E intanto si andava a nuotare nella vasca della Stampetta in piazzale 26 luglio (ora vi hanno fatto sopra il «Palazzetto dello sport»), che aveva al centro la boa arancione (un «gamellotto», dicevamo noialtri), tirata fra una sponda e l’altra da un cavo d’acciaio, il quale, dondolando nell’acqua tranquilla, separava, ammonendo, quelli che sapevano nuotare dagli altri. E gli altri, ovviamente, eravamo noi che, nonostante prove e controprove, ci trovavamo sempre ai primi tentativi, rimasti tali anche dopo, nella vita, per più di uno.
Non alludo a me che la «rana», o bene o male, imparai a farla con la facilità con cui appresi ad andare in bicicletta, cioè inzuccandomi sul palazzo arcivescovile venendo giù dai giardinetti, come, del resto, più volte avvenne che mi inzuccassi sul fondo della vasca, ma mi riferisco, invece, a colui il quale faceva i tuffi e tornando a galla era costretto ogni volta a chiamare aiuto per farsi portare a riva. Ah ben, bisognava vedergli la faccia quando tornava su e lo spavento con cui si guardava in giro a cercare qualcuno che gli desse una mano! Una volta che si trovò solo, dato che, riaffiorando, le teste che avevano galleggiato in quei paraggi fino a un momento prima dovette accorgersi che non c’erano più, gridò al bagnino: – Bagnino el ganfo. – E glù glù, andò giù. Il bagnino, che non so quante volte lo aveva diffidato a buttarsi dove non si «toccava», si tuffò, lo portò a riva tirandolo per una orecchia, lo fece vestire tutto bagnato e lo mandò a casa con la camicia attaccata al dorso e il fondo dei calzoni al resto.
Tuttavia per noi, rana o non rana, la Stampetta era una sorta di paradiso e quando apparivano sui muri di Udine i manifesti «E’ aperta la vasca da nuoto» parevano tanti squilli di tromba. Si pagavano quaranta centesimi ai «popolari», cioè un cabinone in comune che quando si andava a rivestirci mancava sempre qualche cosa, o la cinghia, o la maglia, addirittura le scarpe; e una lira e cinquanta in cabina singola, ma chi aveva i soldi per la cabina? Di grazia quelli dei «popolari» veh!, che non so le acrobazie che si dovevano fare per arrivare a metterli insieme e spesso anche senza dignità. Eppure, nonostante il rischio di andare a casa scalzi perchè là dentro ti portavano via anche i calzetti (come, purtroppo, a più di qualcuno accadde, e non una volta sola, di farsi poi accompagnare sul «cambron» della bicicletta), ah le belle mattinate distesi sul cemento che ardeva sotto la pancia, che era un piacere a sentirlo, il profumo dei fioretti bianchi degli alberi, gli uccelletti sopra e lo s’ciac-s’ciac nella vasca di chi vi nuotava «a mattone»! Che bellezza, che brividi, da doverci fin trattenere il fiato alle spruzzate a tradimento che capitavano tic-e-tac nella schiena e che ridere galleggiando sulle camere d’aria d’automobile col tubetto della valvola che grattava dietro, vulcanizzate e rivulcanizzate e piene di «blecs», mentre adesso, invece, a Lignano si galleggia da pascià sui materassini pneumatici oppure si va dentro pieni di complessi: la pancia, la cellulite, le congestioni, i raffreddori, provando e riprovando la temperatura dell’acqua con la punta del piede, stirati, lucidati e massaggiati con mezzo chilo di crema ambrasolare sopra!
Cosa vogliono dire gli anni! Metaforicamente parlando, neanche per le cotte si aveva bisogno dell’ambrasolare. Scottature di niente. Venivano, toccavano e andavano. Nessun pericolo, al massimo al massimo un po’ di appetito di meno (dicevano a tavola: «Quel putèl lì el gà mangià una sola supièra de pastasuta e no due come al solito: el deve esser inamorà») mentre adesso, invece, a questa nostra età, altro che ambrasolare! se ne prendiamo una a Sant’Osvaldo si va.
Liberi, quindi, come uccelli di campagna, ci si ritrovava la sera in via Marinoni che si era neri come il carbone e freschi come il latte, e siccome la Teresa suonava anche il piano, lei nel tinello a luci spente, noialtri fuori idem, ci toccava galleggiare un’altra volta, e non già più sull’acqua della Stampetta, sibbene nell’aria mite del giardino, veleggiando ognuno per conto nostro, ma tuttavia insieme, su una unica rotta e verso lo stesso porto: lei.
Quanto mi sono piaciuti quei momenti di zucchero e miele e come credetti e sperai che non avessero dovuto finire mai, mentre accadde invece esattamente il contrario, cioè come mi aveva insegnato la mia maestra di terza, la povera Lavarini, la quale, a ogni principio di anno scolastico, diceva che in questo mondo tutto è destinato a finire.
E fu, ahimè!, incredibilmente vero. Teresa si sposò, partì, sparì, e via Marinoni chiuse i battenti. Scoppiò la guerra e di tanti che vi andammo, in pochi ritornammo. Rimanemmo di noi come quando si apre un pugno di sabbia e questa scende giù fra le dita e sul palmo ne resta poco o niente.
E proprio a me, cioè a uno di quei pochi, è capitata di fresco la combinazione di rivederla. Vista e riconosciuta, i battenti di via Marinoni si sono riaperti di colpo come a un tocco di bacchetta magica. Era ancora bella, ma aveva premura: la figlia, la figlia della figlia, pacchi. E quando arrivò l’autobus che aspettava, mi tirò via la mano per paura di farsela prendere fra le portiere, cosicchè, insieme a quelle, i battenti di via Marinoni si chiusero un’altra volta e, data l’età, adesso credo per sempre. La vita.