di Renzo Valente
La gigantesca gru che in via Cavour, alcuni anni fa, ha consentito al Comune di ricavare da una soffitta del Palazzo municipale una decina di uffici di cui aveva bisogno, è stata tirata in ballo nel corso dei lavori messi in opera, nella stessa via Cavour, per rinnovare selciato e marciapiedi.
Si è trattato di un confronto fra i due servizi, passerelle, ponticelli, percorsi di guerra, dal quale quello della gru è risultato più personalizzato rispetto all’altro, ritenuto addirittura dozzinale.
La gru, quella gru, quegli anni, una novità. Quando fu messa in piedi non pareva neanche vero che si fosse arrivati a tanto e quando la smantellarono e la rimossero non parve neanche vero che si riuscisse a ridurla di tanto. E come avevamo esultato nel vedercela crescere, sotto gli occhi, altrettanto abbiamo sofferto assistendo al suo rapido declino. Quattro bulloni da allentare, poche viti da svitare, un paio di dadi da rimuovere e tutt’a un tratto via Cavour è ritornata quella che era. Sgombra, pulita, liscia come un biliardo. Fu una restituzione che contò. Finalmente, Dio sia lodato, uno due tre liberati. C’era da rallegrarsi, finalmente, beata l’ora, e invece ci dispiacque.
Le eravamo affezionati, avremmo voluto che rimanesse, che continuasse a tenerci compagnia; ma sì, dal momento che c’era potevano anche lasciarcela. Non costava niente e avrebbero fatto un’opera buona.
Tirata su un anno prima, mese più mese meno, ormai vi avevamo fatto l’abitudine.
Via Cavour si era quasi dimezzata ma si combinava lo stesso. Si passava fra il palazzo, si fa per dire, dell’Upim e il recinto che la isolava, ci si fermava a leggere i manifesti che vi incollavano sopra, oggi all’Odeon, domani al Centrale, dopodomani all’Ariston, e alla fine si proseguiva come se non esistesse. Chi se ne ricordava più? Non dava fastidio, anzi, era diventata essa stessa, via via che passavano i mesi, e fra poco si sarebbe festeggiato il primo anniversario, uno dei monumenti della piazza, ai quali, poiché ce li troviamo sempre fra i piedi, non ci si bada più.
Com’è la vita. Qualche volta si hanno in casa delle meraviglie e nemmeno ci si scompone mentre invece se vengono da fuori rimangono come ebeti. Ma che bella piazza che avete, che splendide logge, che magnifico orologio, che leoni, che statue, che fontana. Ce lo lasciamo dire dagli altri che non sono di qui e noi invece che siamo di qui facciamo la figura di non sapere neanche di averle. Meraviglie? È vero, avete ragione, abbiamo una bella piazza, lo sappiamo, ma non c’è da vantarsene. Siamo friulani. Il pudore, la riservatezza, l’umiltà. Non si può. Non si deve.
Vietato dimostrarlo. Ce ne compiacciamo ma dobbiamo tenercelo per noi, non è il caso di sbandierarlo. I friulani sono così e tali devono rimanere. Ce lo raccomanda anche la Filologica. Che cosa dicevano Chino Ermacora e Ottavio Valerio? Friulani, nel mondo ma con discrezione.
Siamo a questo punto. Friulani? Bestie. Ci accorgiamo di avere le meraviglie solamente quando ce le portano via. Prendiamo l’Eden. Un giorno facciamo i conti e ne manca una. Chi manca? Questa c’è, quest’altra anche, dovrebbero essere tutte, eppure i conti non tornano. Mancava l’Eden. Non c’era più. Sparito. Come mai? Come mai ce l’hanno tolto? Che cosa ha fatto? Meritava? Possibile? Come mai? Come mai?
Come mai come mai, chiacchiere. E’ accaduto e basta, inutile lamentarsi. Soltanto che siamo stati sfortunati. Volevano portarcelo via? E sia, si accomodino pure, se la vedranno con il Pretore celeste, ma che almeno non si lascino dietro altre disgrazie. Come non detto. Ce l’hanno macellato e al suo posto è venuto l’Upim. Doppio disastro. Il macello e l’Upim.
Erano gli anni in cui la città, nonostante le lunghe degenze delle gru, la perdita di qualche Eden e l’avvento di altrettanti Upim, malgrado appunto fosse sfigurata e sepolta dalla cenere di quanto abbattevano e dalla polvere di quanto producevano, nonostante tutto, si manteneva pulita. Questione di scope, di braccia e di coscienze. Una pulizia che non imponevano, la sentivano e l’affidavano. Bastava. Questa piazza a me, quella strada a te, il viale a voi, e quando le coscienze, le braccia e le scope finivano di lavorare, la città brillava.
Allora, gli spazzini erano soltanto spazzini, non si chiamavano ancora netturbini e tanto meno operatori ecologici, si rideva per altre cose, e nessuno si offendeva. Senta signor spazzino, per favore mi porti via questo gatto morto. Ai suoi ordini signora. Il linguaggio sarà anche stato meno raffinato ma obbedivano senza farcelo rilevare. Ecco fatto, signora, e se domani ne ha un altro non si faccia riguardi.
E avevamo anche i benemeriti. In via Gemona ce n’era uno che era di una pignoleria che i suoi predecessori, con tutto il rispetto e la considerazione che merita anche il loro lavoro, neanche se la sognavano. Doveva essere uno di quelli che quando qualcuno sta per entrare a casa sua lo ferma sulla porta e lo sottopone a visita fiscale. Un momento. Alt, vedere le scarpe. Pulirsi le scarpe. Entrare, ma meglio togliersele.
Quando prese servizio e si vide subito di che pasta era fatto, si pensò al proverbio scopa nuova scopa bene; mai tanto appropriato come in questa circostanza, sapevano che la mosca bianca avrebbe potuto diventare anche nera, si preoccupavano che non fosse un fuoco di paglia, temevano i ripensamenti, conoscevano i precedenti. Uno parte che pare voglia cambiare la faccia della terra mentre va a finire che scende alla prima stazione e rientra nei ranghi. Pensavano appunto alla solita bolla di sapone e invece durò.
Non gli sfuggiva un biglietto di autobus, un fiammifero, una firma di cane. La signora Galimberti raccontò che sulla porta della sua pasticceria aveva raccolto perfino una carta di caramella e un carabiniere confermò di averlo visto fare qualche cosa di simile anche sul marciapiedi della caserma, come altrettanto il parroco di San Quirino su quello della chiesa. Non ci riferissimo ai tempi che sappiamo, non sarebbe neanche da credere. Un gioiello.
Ci fossero state le Olimpiadi della pulizia, vi avessero mandato la squadra degli spazzini azzurri, ne avesse fatto parte, gli avrebbero dato la medaglia d’oro.
Medaglia d’argento invece, al collega di piazza Libertà, il quale, nonostante i grandi bivacchi, aveva saltato soltanto qualche lattina e alcune gomme da masticare usate.
Medaglia di bronzo a quello di piazza San Giacomo che per quanto bravo e diligente non vedeva però tutte le fiale e le bustine.
Nessuna invece a quello di via D’Azeglio, che era la via del sindaco e modestamente anche la mia, in quanto entrambi avevamo sotto il tetto della casa di fronte il cadavere di un povero colombo morto due mesi prima e ancora in attesa di sepoltura.