di Renzo Valente (dal volume «Udine 16 millimetri», Udine, Arti Grafiche Friulane, 1987, pp. 365-69)
Non tanto per quella sorta di affetto che ad essa mi legarono due anni consecutivi di aperitivi; né per il fatto che in un non lontano passato me l’ebbi cara per altri versi, e neanche per gli ultimi gestori, i quali hanno deposto le armi senza combattere, sospetti di intelligenza col nemico, ma soprattutto è per la mia città che mi dispiace che vada giù, povera “Buona Vite”! Mi pare impossibile. Quando me lo dissero in anteprima non ci volli credere e il giorno in cui (e non scherzavano affatto, come subito sperai) mi sbatterono fuori, orfano tic e tac di un’altra madre, mi convinsi amaramente di non essere di questo tempo bensì di quello sotto Marco Caco Ogni illusione che m’ero fatto sulla lealtà a oltranza, sulla devozione eterna e sull’umana riconoscenza, cadde.» Mi vergognai di avervi dedicato l’anima.. Mi sentii ridicolo e solo. Mi trovai come in un frigorifero, tale e quale sul pack quelli della “Tenda rossa”, che non avevano intorno che ghiaccio, orsi e foche, alle quali la vita va sempre bene, sia che stiano là a fare le bestie serie, sia che vengano qua a fare le pagliacce con la palla sul naso, come si pagliacci, da queste parti, non ce ne fossero abbastanza.
E adesso che la frittata è fatta, che fare? Abbaiare alla luna? Protestare? Contestare? Il per conto mio, potrei bruciarmi in piazza San Giacomo e magari nell’ora della spesa, o quando escono dalla messa, che farebbe colpo. E lo farei, anche. Ma chi mai si volterebbe indietro? Sono sicuro nessuno. A cosa servirebbe? A niente. Nemmeno a scaldare le odierne signore che vi vendono la frutta e la verdura, le quali, peraltro, non ne avrebbero bisogno siccome abitano macché baracche piuttosto ville, mentre le colleghe precedenti 8a quelle sì che avrebbe fatto comodo, con tutto quel freddo che pativano, povere diavole, le trippe bollenti alla Maddalena Sporca, e la grappa ogni tanto, dàmi un vôli, ‘o ven cumò, da Barbaro, sotto i portici), avevano le baracche sul serio., una tenda a ombrello e basta, la bilancia a braccio, il lume a carburo e d’inverno, appunto, i fuochi all’aperto, accesi con le cassette dei limoni, il cui fumo, allorché il giorno abdicava a favore della sera, salendo e velando di bianco, di rosa e d’azzurrino le case, la chiesa e la fontana, parlava non già il linguaggio degli indiani, sibbene quello, assai più comprensibile, di un calore che non veniva soltanto da una fiammata di stecche secche ma anche dal cuore invisibile, sebbene carico di sangue grosso e di magoni, di una famiglia provvisoria, la quale, ignorando di aver scritto una pagina di poesia, smontate le tende, mandi mandi, buine gnot buine gnot, si sarebbe ricostituita l’indomani all’alba.
Dunque, la “Buona Vite” parte e, con lo stesso treno, il giardinetto e la villa accanto e il gentile parchetto davanti, che mi fa venire in testa, e anche nel cuore (e dài, le lezioni non mi servono proprio a niente, povero babbeo, cento volte recidivo!), uno che amo a Tricesimo, questo enorme, l’altro intimo., gli alberi ombrosi e sonori, sparati verso il cielo o riversi sul marciapiede di via Treppo, la grande chioma rossa o bianca o verde, mobili e odorosi, sonori di uccelli e di insetti, le felci lucenti ai piedi, che vidi brillare e non le vedrò più, fra l’altre erbe, quando andavo a casa passandovi sotto, in via Cairoli.
Che paradiso incredibile in tanto inferno, e che macello!
Partono e alla stazione scommetto che non ci saranno non dico lacrime d’addio ma nemmeno i fazzoletti a salutare i quali, comunque, costerebbero assai meno. Niente. Una sbuffata di vapore, un’alzata di paletta, e chi s’è visto s’è visto, come capita a uno che lascia la città senza parenti.
Si transit. Così transiterà da questa terra (destino crudele!) una vera signora, che dell’onestà, della compostezza e della coerenza portava umilmente la bandiera, non un mattone tolto né uno aggiunto, Né rossetti né belletti, e neanche compromessi, ma!, in tutta la sua esistenza, che fu lunga ed esemplare. Vissuta dignitosamente, morirà in piedi.
Ah, la “Buona Vite”, quanto bene, per me e per la mia città, le ho voluto, e da quanto! Come mi è sempre piaciuta, adesso e prima, al tempo in cui venivo col povero Cino Valentinis e i colleghi del giornale a cenare da sopra Maria, nella stanzetta di Zorutti su via Treppo, e sostavamo un momento, un calice di bianco prima di sederci a tavola, al focolare, che fu quello intorno al quale Chino Ermacora, la vigilia di un Natale di guerra, cantò le villotte insieme ai suoi soldati (un respiro fra un ta-pum e l’altro, un po’ di miele nel cupo e inaridito, e il cannone tuonava sul Monte Nero e sul San Gabriele.
Che macello, povera “Buona Vite”, che aveva i vetri opachi a dischetti veneziani legati col piombo e i lampadari di ferro nero e i tavoli massicci e le grandi sedie impagliate e il soffitto a travi e le pareti erano di legno scurissimo, come il resto, e nella penombra di panno e di velluto venivano i lampi delle fiammate viperine, brusii, sibili e faville, a illuminare i bordi dei mobili e i nostri visi. Che macello! Che macello povera povera “Buona Vite”! E che care ore mangiando davanti al “Tratament” di Zorutti che Fred Pittino aveva eternato (oh, la beffa dei luoghi comuni! Sui muri: asini in piedi e seduti, bovi dagli occhi grandi e tondi come le uova che da essi prendono il nome, , cani, maiali con le loro signore, galline con i loro mariti che parevano contesse, e il gatto.
Era un gatto speciale. Aveva la coda per aria, girava la testina a contromarcia verso il fondo della schiena, raggiungendo, la linguetta fuori, la gambetta posteriore che faceva il saluto romano.
Una volta che, per scherzare, lo mostrai col dito alla ragazza che ci portava la minestra questa, tirando su il naso, ci diede subito dei vergognosi: – Vergognôs! Ma come faseisô a mangiâ cun che robe lì denant? -.
Ma sì, meglio buttarla in ridere.