di Renzo Valente
A proposito del baccano che ha preceduto e poi accompagnato l’uscita del libro e delle accuse contenute nelle dichiarazioni che alcune settimane fa la mia coscienza ha rilasciato a questo stesso giornale, c’è adesso qualche cosa da aggiungere e da chiarire.
La mia coscienza. La mia coscienza era una buona diavola. Dobbiamo riconoscerlo e va detto.
Rispetto ad altre che per quanto si sentiva in giro pareva che fossero molto più severe e più fiscali, la mia era un burro. Sorvolava, compativa, indulgeva, faceva finta di non vedere, di non sentire, di non sapere. Con lei era un bel convivere. Uno le combinava e l’altra gliele perdonava. Non abbiamo mai litigato, non mi ha mai rinfacciato uno sgarbo, una mancanza, una debolezza, non c’è mai stato fra noi niente di serio, se mai da riderci sopra, quasi da compiacersi, da divertirsi, una bugietta, una parolaccia, una rispostaccia, non sta bene ma per questa volta passi, insomma comprensione e tolleranza.
Si filava dunque che era un piacere, non sta bene, non farlo più, meglio di no, rimproverini come violini, tiratine d’orecchi come piumini, sgridatine come pigolii di pulcini, quando di colpo, benché pubblicizzato dai baccano che ormai sappiamo e accolto come fosse Garibaldi, è venuto il libro.
Ah ben, che cosa non è successo nel modesto appartamentino in cui coabitiamo, da non credere, un Vesuvio. Il finimondo. Da così a così, tanto era stata buona, tanto è diventata peste. Bisognava sentirla. Una bestia. Urlacci, strillacci, gridatacce, me ne ha dette di tutti i colori, mi ha dato del vigliacco, del traditore, del venduto, del presuntuoso, del vanitoso, dello sfacciato. Sei stato tu a provocare, sei stato tu a pompare, sei stato tu a stuzzicare. Occorreva? Che cosa credi di avere fatto? Che cosa ti sei messo in testa? Ti rendi conte che hai scritto soltanto un libro e chissà mai che libro? Siamo di male. Uno scrive un libro e pensa di essere un altro Dante Alighieri. Ma che cosa ci vuole per scrivere un libro? Chi è che oggi non ha scritto un libro? Ne scrivono in tanti che a Tarcento si sta già pensando di dare il Premio Epifania a uno che non abbia mai scritto un libro.
Si è arrivati a tanto e questo qua invece si gloria di averne scritto uno. Cinque giorni di annunci, di indicazioni, di precisazioni, attenzione che è in lavoro, attenzione che siamo quasi, attenzione che ci siamo. Cinque giorni di bombardamenti, di mitragliamenti, di grancassa, le fotografie, la Radio, la Televisione, addirittura l’appuntamento con l’autore, via, numero, riceve dalle alle, portateci il libro, ve lo firmerà, siate puntuali, ci sarà un vigile ad ordinare le cose, non preoccupatevi, e poi la serata, i discorsi, gli oratori, il fine dicitore, e tu che ti metti a fare la Wanda Osiris, a salutare, ad abbracciare, a mandare baci sulle punte delle dita, eccomi qua, sono come tu mi vuoi. Dovresti vergognarti.
Un granchio. Ero innocente. Non mi sono mai sognato di bombardare, di mitragliare, di suonare la grancassa e tanto meno di mettermi a fare la Wanda Osiris, figurarsi, la Wanda Osiris a me che sono uno che si nasconde soltanto se un altro lo guarda, e che per l’amor di Dio non sia uno di via Liruti, macché Wanda Osiris, neanche quella che ballava alla Rotonda e ogni tanto polsava, neanche quella, altro che Wanda Osiris. Un granchio. Se mai la firma. Ecco, la firma piuttosto. Non c’entravo nemmeno con questa, però ne avessi avuto l’idea, ci sarei stato. Ne valeva la pena.
Venivano proprio in coda, mi mettevano il libro sotto il naso, mi tenevano la penna alzata, aspetti un momento, si facevano riconoscere sono figlio, sono nipote, sono pronipote, mio padre era, mia madre era, mio nonno era, si ricorda, si ricorda, si ricorda, abitavano, lavoravano, avevano il negozio, e mi facevano vedere fotografie, ritagli di giornale, santini, cimeli, reliquie, si ricorda, si ricorda, si ricorda.
Erano commoventi. Cercavano di venirmi incontro, di farmi capire che partecipavano, che condividevano, che stavano con me, che anche loro, direttamente o indirettamente, avevano avuto a che fare con il tram.
Furono ore di passione, di magoni. Qualche numero? Uno che mi mostra una foto-ricordo di settant’anni fa, guarda qua, siamo nelle scuole di via Viola, quarta elementare, avevamo dieci anni, guarda qua, ciabatte, zoccoli, poche scarpe, e questo sono io, e questo sei tu, uno che mi manda le prove che la pace del mondo è gelatina come in effetti cantavamo con Garzóni e non oggi è lattina come invece volevano farci credere, una che mi tira fuori dalla borsetta la fotografia di sua madre che fu la nostra divina ai tempi del muretto e dei passeggi in piazza Vittorio, uno che non ha il libro ma che ci tiene lo stesso a farmi sapere che è un parente povero di quel colonnello Rubbazzer di via del Monte, mio vicino di casa e residente dell’ospedale, che mi firmava i permessi
per andare a trovare la nonna piena di polmoniti, una infermiera del Geriatrico di via Sant’Agostino che mi conferma, compiacendosi, la disponibilità di una camera con bagno e vista panoramica sul Parco della Rimembranza, e mi pare che con le rimembranze lei è di casa, venga venga, vedrà che si troverà da pascià, e per finire, ma ce ne sarebbero degli altri e anche tanti e li nominerei se la coscienza non fosse sul piede di guerra, e per finire, quello del ghiaccio, sono quello del ghiaccio, dice rifilandomi una fotografia di cinquant’anni fa, si ricorda, si ricorda, si ricorda, che arrivava in via del Monte con cavallo e furgone, Ditta Luigi Moretti, fabbrica birra e ghiaccio, che arrivava, apriva lo sportellone, chiedeva quanto, bastava un quarto, agganciava lo stampo intero, prendeva la mira, lo squartava in quarti, ecco qua giovanotto, si ricorda, si ricorda, si ricorda, me lo metteva nella vaschetta o nel sacco che gli allungavo, venti, trenta centesimi, mi salutava, ci vediamo domani; ariviôdisi, e mi lasciava il quarto da portare al quarto piano, sessantacinque scalini, quattro pianerottoli, quattro polsate, quattro riprese, mâma mâma iûdeme che ogi el pesa più del solito, su mo su mo, no stâ a dir stupidagini spâchelo in quâtro invece e mêtelo nel glasserôto prima ch’el se disfi, un mobiletto con il fondo di latta per raccogliere gli sgocciolamenti e al piano di sopra il latte, il burro, le uova, si ricorda, si ricorda, si ricorda, ricordavo, ricordavo, ricordavo, il furgone, l’uomo, il ghiaccio, il peso, ricordavo, ricordavo, ricordavo.
E qua mi fermo altrimenti rischio di compromettere l’armistizio appena firmato e approfittare di una coscienza ritornata buona sarebbe una vigliaccata. Soltanto una cosa. Sono venuti in tanti, ho visto tanti, ho sentito tanti, ho parlato con tanti, non è venuto invece chi mi aspettavo che dovesse venire, e mi riferisco agli storici e ai biografi della città, i quali probabilmente, dopo l’arrivo dei vagoncini natalizi in Mercatovecchio, devono aver creduto di essere ancora in un paese col tram e pertanto non è stato necessario ricorrere al libro per sapere com’era fatto.