di Renzo Valente
Poiché non passa giorno che la signora Modotti non venga nominata, mi pare prudente e conveniente, accodandomi alla notizia della stele, seguire l’esempio di chi mi ha preceduto e occupare l’angolo del giornale che abitualmente mi compete con qualche cosa che potrebbe interessarla.
La notizia a cui mi riferisco riguarda le onoranze con le quali un apposito Comitato, d’accordo con il Comune, intendeva celebrare il centenario della nascita che cadeva il 17 di agosto. Non se ne é fatto niente, la stele che si doveva collocare sul frontale della casa natale in Borgo Pracchiuso con dedica di Neruda non era ancora pronta e il Comune, benché anche in questa circostanza abbia dato assicurazioni che la stele prima o poi si farà, ha pure precisato, a sua giustificazione, che il ritardo era anche dovuto alla difficoltà di individuare, senza equivoci di sorta, la vera casa in cui la fotografa è nata.
Che cosa è accaduto?
È accaduto che la proprietaria della presunta casa natale della Modotti, rifiutando le indicazioni dei Comune, ha orientato i promotori verso un’altra identità.
La casa natale della Modotti ha detto la signora, non è la mia, la sua è al 93, quattro numeri dopo, e poi non è nemmeno quella bensì la precedente che è stata demolita molti anni fa. Comunque, ha concluso la signora, la Modotti sarà ricordata lo stesso, dirò per lei una preghiera.
Insomma una gran confusione, una serie di dubbi, di contrattempi, di malintesi, di scambi, di inadempienze, di preghiere che hanno mandato all’aria tanti buoni propositi.
Cento anni. Personalmente ne ho, di meno, ma ai miei cento, quando cadrà il mio compleanno e mi metteranno la stele sulla casa, facciano le cose perbene, non diano retta alle signore che interferiscono, non si cùrino di loro ma guàrdino e pàssino, e se prevedono che possano sorgere delle complicazioni prendano nota.
La mia casa è in via del Monte numero 6, quarto piano, telefono 509750, prefisso 0432, codice di avviamento postale 33100, Udine, Italia, e non disturbino altri Neruda per farsi fare l’epigrafe, l’anticipo io adesso, ecco qua. A Renzo Valente, cittadino esemplare ma anche fotografo, il Comune pose.
Che bravi che eravamo. Quando fotografavamo noi facevamo tutto da soli, non avevamo bisogno di nessuno, neanche dei tromboni. Autonomi. Autarchici. Indipendenti. Sufficienti i nostri mezzi. Macchinetta a cassetta, mirino incorporato, un momento, stê fêrmi un momento, stringêvese, via quêi corni, no stâ a fâr el mona, sorridete, clic, fatto. Che cosa ci voleva? Non occorreva essere delle Modotti per fotografare, non era necessario fotografare le calle, si fotografava e basta. Avevamo otto pose. Scattata la prima, si girava la chiavetta a farfalla e veniva su la seconda. Trac la seconda, trac la terza, e avanti. Leggevamo i numeri che si susseguivano sotto il vetro di un finestrino di mano in mano che si girava. All’otto il rotolo finiva ma avvertivano prima. Allora si usava, si avevano questi riguardi. Passavano nel finestrino alcune, frecce nere una dietro l’altra, attenzione attenzione, stiamo per finire, e tutt’a un tratto altolà, un segnale rosso, altolà, d’ora in poi non ce ne sono più, e guardate di non farci prendere la luce, non distraetevi, fate funzionare la testa, andiamo coraggio, pedalate. Quattro giri di chiavetta e quando non girava più aprivamo, toglievamo il rocchetto, leccavamo la linguetta rimasta alzata e si incollava, pronto per lo sviluppo che bene o male si combinava in gabinetto, qualche acido, una buona miscela, tâpona quêla fessura, chi xelo quel disgrassià, ch’el gâ lassà la porta vêrta, serêla, quindi la stampa all’aperto.
Adoperavamo un torchietto di legno; una sorta di cornice con cerniera, carta bianca ma anche avana, vi si sovrapponeva la pellicola ancora calda, abbassavamo i gancetti, esponevamo al sole e si aspettava. Neanche mezz’ora, poco più di un quarto. Una Polaroid di quella volta. Un giorno che lavoravamo nel giardino di Varisco in via Zanon, gentilmente concessoci, e che avevamo esposto il torchietto sull’erba di una aiuola, mentre si attendeva, una cretina alla finestra, forse un’animalista di uccelli, non capì niente. Mâma, mâma, i mête la trâpola ai passeri.
Erano gli anni dei ritratti. Le signore venivano fuori dalle nuvolette, avevano le blusette ricamate, le camicette trapuntate, le coroncine merlettate intorno al collo, i capelli rovesciati sulla nuca, vitini di vespa, vestiti di velluto, sboffi di pizzo, volani plissettati, un ciondolo o un fiore di mussola sui seni rigogliosi ma casti, pose da Beatrice Cenci. Occhi bassi, pudichi, riservati occhi di prima della guerra. Capolavori, opere d’arte. Fotografavano su cartoncini spessi, stretti, alti, bicolori, chiari e scuri, le figure in un seppia pastoso, morbido, tenero, delicato come un petalo di rosa, e sotto, in un angolino, oppure anche sul rovescio, discrezione esemplare, la firma del fotografo, in bastoncino, in bodoni leggero, diritta, orizzontale, verticale, obliqua, in nero, in oro, in argento, in oro e in argento.
Stabilimento fotografico Malignani, via Daniele Manin, n. 8, ex Bartolomeo, Udine, Premiata fotografia Pignat & C.o., Udine, via Rauscedo 1, dietro la Posta, Materiale fotografico Attilio Brisighelli, via Giosuè Carducci n. 14, Udine, edizioni artistiche in cartoline, fotografie, ingrandimenti di Udine e dintorni, Gabinetto fotografico Giovanni Pàris, via Manin 9, Udine.
Noi andavamo da Pàris. Aveva il gabinetto nello stesso sottoportico attraverso il quale si saliva dalle zie. Quasi coabitavano. Eravamo quasi di casa, lo vedevamo quasi ogni giorno. Parlava in italiano, fumava il toscano, mi salutava con una strizzatina d’occhio, e le zie con un inchino e quando appendeva al portone le novità, qualche Francesca Bertini, qualche Wanda Osiris, qualche Turandot di passaggio al Sociale o al Cecchini, novità in esclusiva che egli stesso firmava con un Giovanni Pàris che saliva dal basso verso l’alto come un millepiedi, ne andavamo fieri quasi si trattasse di uno di famiglia.
Ci fotografò in tre in riga di fronte, in scala, dal più piccolo al più grande, sullo sfondo di una cassapanca lavorata. Ebbene, nel cassetto dei nastrini rosa c’è anche questa fotografia. I gioielli di Clea, vi ha scritto dietro mia madre, i miei amori. È del 1920. Sedici e quattro venti, in quell’epoca ne avevo quattro, e a guardare la posa dei miei piedi sento ancora, come fosse adesso, l’odore di quel sigaro che si abbassò, insieme al fotografo che lo fumava, per farmi prendere una posizione di riposo che a me pare davvero irriguardosa accanto all’attenti perfetto di mio fratello, lui capitano ed io maggiore di una Marina nella quale, se potessi, ritornerei ad arruolarmi subito.