di Renzo Valente
Ancora a proposito del sistema discriminatorio con cui si gestiscono i compleanni, alcuni da onorare, altri da rimandare, altri addirittura da ignorare, secondo le lune, le simpatie, le mode, e meno male anche che sono riuscito ad evitare ulteriori ingiustizie, mi sia consentito adesso, sia pure contravvenendo alle buone regole della discrezione, di riscattare i trenta dalla morte di mia madre.
Un compleanno importante, trenta tondi tondi, niente spiccioli, niente resti, niente riporti, e merita un riscontro.
Come siamo qualche volta. Si predica la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza, si esorta al rispetto reciproco, si condanna la violenza, la sopraffazione del più forte sul più debole, si consiglia, si suggerisce, si raccomanda, ci si appella al Vangelo e alla Rivoluzione francese, liberté, égalité, fraternité, appunto, e quando invece si presenta l’occasione ce ne infischiamo del prossimo, del Vangelo e della Rivoluzione francese e facciamo il nostro comodo.
Prendiamo questa data. E’ una data che mi riguarda, che riguarda soltanto me e nessun altro, che dovrei commemorare in privato, senza coinvolgere gli estranei, senza obbligarli a condividere, senza costringerli a partecipare, e invece approfitto di questo angolo di giornale che abitualmente mi compete per pubblicizzarla mentre altri che non ne dispongono sono costretti, se ne farlo per conto loro.
Ci sarebbe da vergognarsi, c’è da vergognarsi, mi vergogno, tuttavia, a parziale sollievo dei rimorsi che adesso stanno per assalirmi, mi soccorre l’illusione che almeno qualcuno degli esclusi da privilegi di questo genere possa trovare nel l’immagine di mia madre, che richiamerò dai grandi silenzi dell’oblio, qualche cosa della sua. Può accadere, càpita, mi auguro che càpiti.
Trent’anni. Un silenzio che dura da trent’anni. Non sembra neanche vero. Da non credere, trent’anni che non la vedo, che non la sento, che non ci parliamo. Addio addio, e poi niente, fra me e lei la notte, una porta che si è chiusa e che non è stata più riaperta.
Come ho potuto abituarmi? Come ho fatto a venire a pranzo e a cena sapendo di non trovarla? Come mai sono stato capace di suonare il campanello di casa quando ero sicuro che lei non c’era e non mi avrebbe risposto?
Trent’anni. Trent’anni dai giorni in cui avevano cominciato a contarle le ore ed io andavo ad assisterla in ospedale scongiurando l’autobus che cercasse di non imbattersi nei semafori rossi, che li trovasse tutti verdi, per vederla prima che fosse possibile, per sapere subito come stava, se era migliorata, se si poteva sperare, e contemporaneamente che non si imbattesse in quelli verdi, che li trovasse tutti rossi, per arrivare il più tardi possibile, per non vederla patire, per non sentire che era peggiorata, che non c’erano più speranze.
Quanti anni mi sono passati davanti mentre la guardavo, la sua mano nelle mie, gli occhi celesti pieni di domande, la testa immobile nel cavo del cuscino, i capelli dorati che rigavano come fili di seta le piccole orecchie, di giorno in giorno sempre più piccole; il nasino ancora elegante mia, più, magro, la cera meno rosa, meno viva, quanti anni. E mentre la guardavo ritornava il tempo in cui, in quella stessa stagione, mi portava a spasso per Udine, giovane, bella, fiera, indipendente, benchè povera e sola, già vedova a trent’anni con tre figli da crescere al ronzio della macchina da cucire, e mi indicava in piazza Vittorio gli uomini della torre che battevano le ore sulla campana, stâ atento ai mori che i se môve, dan dan dan, riportandomici anche la sera per farmi vedere la luna che passeggiava sulla testa dell’angelo, le luci dei caffè, delle vetrine e del tram che illuminavano piazza, per farmi sentire, dietro le sedie di chi beveva il caffè o mangiava il gelato, e noi invece soltanto saliva, i concertini del Dorta e del Contarena, oppure i concertoni della Banda Cittadina sotto la Loggia, nel vano della quale, sommerso dalla folla sempre più alta di me, scoprivo i capelli del maestro Mascagni che impazzivano fra le teste della gente.
Povera mamma, ancora bionda a ottant’anni e lo stesso vicina a morire, che tristezza. Non dimenticherò mai più, in quella parte, della vita che mi rimane ancora da consumare, le ore chie passai nella sua cameretta, le sigarette che andavo a fumare sul terrazzino quando si appisolava, il liquido che scendeva nelle pallide vene ormai impalpabili, goccia a goccia, eterno, ossessionante, il polso sottile e appena tiepido che le tenevo fra le mani perché non si muovesse e l’ago non le uscisse, le infermiere che venivano a cambiarle posizione. chiamandola per nome, siôra Clea siamo qua, come va come va, vôla un biscôto, vôla una caramêla, vôla un ciocolatin, e lei
che non parlava più che non sorrideva più, che teneva gli occhi sempre chiusi, che faceva di sì o di no con la testa, stanca, sfinita, intimidita da tutti quegli aghi di siringa e di flebo che via via non si contavano più, la bocca asciutta, rossa e calda, continuamente aperta ad aspettare che le si bagnasse le labbra e la lingua, che le si desse un po’ di sollievo, che le si spegnesse il fuoco che aveva dentro, povera mamma.
Povera mamma. Se ne è andata senza aprire gli occhi, senza avvertire, senza salutare. Un uccellino che muore senza far rumore. Povera mamma.
Guardo il cielo, quale sarà il suo pezzetto? Sarà qua, sarà la? Là non credo, non mi pare, è fuori di mano, non è il suo, il suo è quassù, non può essere che quassù.
Qua e non là c’è via del Monte, c’è la sua casa, ci sono i suoi negozi, fa, un salto là de Stùrolo e te me ciôl una spagnolêta de Filofòrt numero cinquanta, qua e non là, in questa cucina e non in quella, si tingono i vestiti con il Super-Iride, per l’amor de Dio putêi andè un poco in piassa se no qua dentro se môre sofogâi, qua e non là ci sono le zie di via Manin, il pranzo di Capodanno, il budino e il vino dolce, ve sêo lavai le man, march a lavârse le man se no qua no se magna, qua e non là si fanno rotolare le castagne arrostite sulla tavola e si gioca a Tombola con i fagioli, dâghe una spacâda a quel sachêto, vedêmo mo se la fortuna la vièn anche da questa parte, qua e non là, da questa finestra e non da quella si saluta chi va a fare il soldato e si raccomanda, scrivi apêna che te rivi, magari anche solo una cartolina, e intanto gli occhi celesti si appannano; i capelli biondi spiovono sulla strada, scrivi scrivi, magari anche solo una cartolina, e il fazzoletto entra ed esce dalla tasca del grembiule.
Gli stessi occhi celesti che adesso non guarderanno più, gli stessi capelli biondi che adesso non spioveranno più, la stessa bocca che adesso non raccomanderà più.
Trent’anni come oggi, 7 luglio 1966, trent’anni, come fosse ieri.