di Renzo Valente
Si è sposato il figlio di un mio commilitone che fa ancora l’ortolano dalle parti di Paderno.
E un padre alla buona, all’antica, un po’ fuori dal mondo di adesso, nel senso che stava meglio in quello di prima, e quando gli propongo, presente anch’io alla cerimonia, di mettergli due righe sul giornale, sbalordisce. Noi sul giornale? E perché? Non capisco. Sul giornale. Senti questa, sul giornale. Ci mette sul giornale, e perché mai? Che cosa abbiamo fatto di speciale per andare sul giornale? Se uno si sposa che meriti ha? Sono affari suoi e alla gente non interessa niente se due si sposano. Ma che razza di discorsi sono questi?
Sul giornale, pensa tu, sul giornale.
Non ne voleva sapere, continuava a non capire, non si rendeva conto, e soltanto quando gli ho fatto leggere quanto avevo scritto a proposito delle nozze del figlio di un altro, nella cappella gentilizia del palazzo avito si sono uniti in matrimonio il contino e la contessina, soltanto allora ha quasi ceduto, ha mezzo acconsentito, gli è scappato un ni. Vedi, gli ho detto, si usa, non c’è niente di male, non è la prima volta.
Abbiamo fatto il militare insieme e anche la guerra. Gli sono affezionato e credo anche lui a me. Eravamo appena caporali ma ci intendevamo lo stesso, ci siamo divisi la tenda, la branda, la galletta, la borraccia, abbiamo mangiato la stessa sabbia, ci hanno mangiato gli stessi pidocchi, le stesse cimici, le stesse pulci, ci sono piovute addosso le stesse bombe, ci siamo riparati nelle stesse buche, abbiamo invocato la protezione degli stessi santi, e andavamo a struggerci di nostalgia, guardando in su un ipotetico Stivale e un immaginario Friuli, sulle rive dello stesso mare.
Questione di coscienze. C’è in comune fra di noi una vicenda che ci ha fatto vedere in trasparenza. Ci conosciamo insomma non soltanto per quello che si vede fuori ma anche per quello che si sente dentro e perciò ci stimiamo per quanto ognuno di noi ritiene che valga l’altro.
Si chiama Argeo Narduzzo e suo figlio Giovanni, la sposa Cornelia Cargnelutti. Mi guarda, sorride finalmente, sembra che si sia calmato, che vi abbia messo una pietra sopra, che non ci pensi più, e invece ritorna all’attacco. Non è convinto, si preoccupa, teme il ridicolo. Cosa mai puoi scrivere di queste nozze fra poveri diavoli, di questi quattro gatti che sono qua, di questi mezzi analfabeti che siamo? Dici che si usa, che non c’è niente di male, che non è la prima volta, grazie tante, ma hai visto quanta gente, che gente, che personaggi erano alle nozze di quell’altro? Nella cappella gentilizia del palazzo avito, hai voglia. Quelle sì che sono nozze, quelle sì che valgono la pena, che meritano di andare sul giornale ed è anche facile cavarsela, ma con noi, con me che ero soltanto un caporale, con mio figlio che fa soltanto il barbiere, con mia nuora che faceva soltanto la filandiera e adesso non lo fa nemmeno più per mancanza di bachi, come me te la caveresti, come te la caverai?
Come te la caverai. Sono preoccupazioni in più. Come me la caverò. Neanche mi scompongo, gli spunti si possono trovare, sono evidenti, l’ambiente è favorevole, la compagnia si presta, gli sposi si tengono per mano, inteneriscono, i fazzoletti dei consuoceri entrano ed escono dalla tasca sempre più bagnati, commuovono, i parenti, gli invitati e i testimoni mangiano la frittata a quattro palmenti, ogni tanto cantano e gridano viva gli sposi e rallegrano, perciò gli argomenti da sfruttare sono abbondanti, me la caverò benissimo, le due righe sono già sulla punta della penna, gliele anticipo. L’altro ieri, nella parrocchiale di Paderno, sono state benedette le nozze del barbiere Giovanni Narduzzo e della filandiera Cornelia Cargnelutti. Alla breve cerimonia religiosa, celebrata dal parroco in persona, è seguito in paese un adeguato rinfresco al quale hanno partecipato, con gli sposi, i consuoceri, qualche fratello, i due testimoni e altrettanti compagni di lavoro. Agli sposi, partiti subito dopo per il viaggio di nozze sul Cormôr, congratulazioni e auguri anche da parte del giornale. Due righe come promesso, niente di più, e non mi pare che il padre possa trovare che abbia esagerato e non abbia mantenuto la parola.
Contento? Non è contento. Ci fila ancora su. Resiste. Fa muro. E’ un caporale che perde le guerre ma che rimane lo stesso sulle sue posizioni. Lo riconosco. Tale e quale quello dei pidocchi, delle bombe e delle buche. Un osso. Non cede ed è pieno di dignità. Un signore. Sconfitto ma nobile. Altro che il padre di quell’altro che invece prega, scongiura, piagnucola, raccomanda di scrivere tutto ciò che si vede, di non dimenticarsi di niente, di non trascurare niente, figurarsi, la cappella gentilizia del palazzo avito, la contessina in abito bianco mentre invece avrebbe dovuto essere meno nero, il contino in abito nero, che per evitare di sembrare un due di novembre sarebbe stato meglio che fosse almeno bianco, il pranzo nuziale a venti stelle, trecento invitati a duecentomila l’uno, champagne escluso, il viaggio di nozze alle Bermude. Ci va Berlusconi, perché noi no?
Siamo dunque alle Bermude. Al carnevale di cui sopra si aggiungono adesso le Bermude, e poiché non ho la resistenza del commilitone che avrebbe resistito anche a queste carnevalate, alzo bandiera bianca, mi arrendo, e seguo invece il consiglio della filandiera di Paderno che mi propone di riprendere il discorso sulle filandiere che una precedente corrispondenza aveva avviato e poi lasciato in sospeso in attesa che qualcuno, magari io stesso, lo allargasse, lo allungasse, lo approfondisse e lo portasse a compimento. Viene a proposito, è pertinente, conviene.
Le filandiere. Erano gli anni in cui le filande avevano la febbre; tenevano i bachi come diti maturi, li facevano passeggiare, li sfamavano, li mettevano a dormire, e mentre in chiesa si predicava dal pulpito di non strapazzare i gelsi, di mangiare le more ma di risparmiare le foglie, mentre i documentari facevano veder al cine come funzionava la catena di montaggio che doveva seguire il passaggio terreno del baco dai primi vagiti alle ultime bave, mentre nelle scuole si davano i temi sul baco, che cos’è il baco, che cosa fa il baco, che cosa dà il baco, mentre insomma ci si faceva in quattro per dare alla categoria nuovi apostoli, nuovi missionari, nuovi predicatori, le filandiere, già sul piede di guerra, aspettavano che i bachi, mangiata la foglia, si decidessero a suicidarsi e a rinchiudersi in quella che alla fine sarebbe stata una tomba da far bollire e da trovarvi il bandolo.
Era un’attesa nervosa ma paziente, temporeggiavano, e nel frattempo scendevano in grembiule e cuffietta, giovani, belle, fresche, una crema, una panna, un burro, sui portoni delle filande a prendere una boccata d’aria e a cambiare odore. Si sedevano su qualche gradino, su qualche pietra, sulla cordonata di qualche marciapiede e qui finivano di mangiare pettegolando fra di loro e tenendo a bada vitelloni che calavano dalle piazze per venirvi a pascolare. Avevano naso, era un pascolo proficuo, abbiamo visto che anche la Cornelia del barbiere vi aveva contribuito, come adesso vediamo che anche un altro, benché soltanto apprendista, vi ha portato modestamente il suo contributo.
Una volta attaccai con una. Come stanno i bachi? Stavano bene. Ci vediamo? Vediamoci. Camminiamo? Camminiamo. Prendiamo via Pracchiuso? Prendiamola. Prendiamo via Cividale? Prendiamola. Attraversiamo i binari? Attraversiamoli. Ci sediamo? Sediamoci sotto quei gelsi? Sotto quei gelsi. Tiriamo giù le more? Tiriamole giù, ma prime ch’al tiri vie che man.
Erano le nostre bigàte. Una parolaccia che non meritavano.